Esiste una forte relazione, nel nostro paese, tra mancato sviluppo delle zone deboli del Sud e deficit democratico. Un nesso profondo e biunivoco, che rende l’uno causa ed effetto dell’altro. La questione democratica è infatti implicita in una nazione che esclude di fatto un terzo della propria popolazione dal circuito produttivo e dai processi decisionali partecipativi.
Questo deficit si traduce, materialmente, in una drammatica asimmetria nelle condizioni di partenza dei cittadini. E produce esattamente ciò di cui si nutre: disuguaglianza e sottosviluppo. In una Repubblica che fonda il proprio status democratico sul protagonismo di tutti al lavoro produttivo, la questione della partecipazione democratica non può che fondersi con questione economica. O meglio, con la capacità delle istituzioni nazionali di esprimere una politica inclusiva, incentrata sulla coesione delle realtà più svantaggiate. Priorità resa ancora più urgente da una crisi che ha allontanato ulteriormente i forti dai deboli e che affonda le proprie radici proprio nella cattiva distribuzione delle risorse e delle opportunità.
La recessione degli ultimi tre anni si è abbattuta sul nostro paese con più forza che sull’Europa e sul Mezzogiorno con più intensità che sul resto del paese. I tre elementi che hanno fatto scontare all’Italia tassi di sofferenza maggiori rispetto agli altri grandi paesi sono l’alto indebitamento pubblico, l’assenza di crescita e
– soprattutto – la forte dualità economica e sociale tra il Nord e Sud. Fattori in realtà intimamente interdipendenti.
La stagnazione economica è infatti il risultato della incapacità di mettere in moto processi di sviluppo nelle zone sottoutilizzate del Mezzogiorno. In altri termini, per tornare a far crescere il paese a livelli sostenuti non c’è altra via se non quella di abbattere il gap strutturale che allontana il Sud dal resto d’Italia. L’azione pubblica nazionale è chiamata a rispondere a questa esigenza, che è una esigenza prettamente redistributiva.
Combattere le disuguaglianze non deve essere considerato solo un imperativo etico, ma una questione di bilanciamento democratico e l’elemento centrale di una strategia di rilancio economico nazionale. Analizzare la distribuzione del reddito e della ricchezza in Italia, significa descrivere gli effetti di un motore acceso solo a metà, tracciare il perimetro di una debolezza sistemica che impedisce al sistema-nazione di tornare a crescere al livello degli altri paesi europei.
Non è un caso che il periodo del miracolo economico sia stato caratterizzato da indici di sperequazione tra i più bassi mai raggiunti nel nostro paese. D’altro canto, seguire le evoluzioni degli indicatori di disuguaglianza negli ultimi dieci anni equivale ad osservare un implacabile aumento delle disparità e dei divari tra gruppi sociali e zone geografiche.
Secondo dati Ocse, intorno alla metà degli anni duemila l’Italia risultava caratterizzata da un livello di iniquità inferiore solo a Usa, Grecia, Lituania e Portogallo. Tra le nazioni contraddistinte dai più bassi indici di disparità sociale e territoriale vi era invece la Germania. Che non a caso oggi vola a tassi di crescita, di redditi e di occupazione che non hanno pari in Europa. Guardare all’esempio di Berlino, vuol dire far propria la lezione di un paese che ha saputo integrare in pochissimo tempo venti milioni di cittadini delle proprie aree deboli dell’Est. Appena venti anni fa un baratro divideva le condizioni dell’evoluto Ovest da quelle dell’ex Ddr.
All’esigenza di colmare i vertiginosi divari esistenti nella quantità e nella qualità dei fattori produttivi, delle infrastrutture, delle condizioni sociali dei cittadini, si aggiungeva l’urgenza di integrare due sistemi politico-istituzionali completamente diversi. Un lavoro immenso, che coinvolgeva simultaneamente il dominio della politica, dell’economia, del sociale e della cultura. E che ha reso necessaria la messa in campo di un “formidabile arsenale di politiche coesive”, come lo definisce la Banca d’Italia in uno studio del 2009.
La Germania ha investito nel proprio “Sud” dal 1990 molto, ma molto di più di quanto l’Italia abbia speso per il proprio Mezzogiorno dal secondo dopoguerra. Tabelle alla mano, il governo federale tedesco ha stanziato in due decenni qualcosa come 1.500 miliardi mirati alla convergenza delle aree sottoutilizzate dell’Est, pari a una media di 75 miliardi di euro l’anno. Una quantità di denaro enormemente superiore rispetto ai 360 miliardi investiti (male) dall’Italia dal 1945 ad oggi.
Comune a entrambe le esperienze è l’elevata dipendenza dall’intervento pubblico, perpetuata da una evidente difficoltà di avvio di un processo di sviluppo autosufficiente. Tuttavia, se in 60 anni l’Italia ha speso mediamente nel proprio Sud non più dello 0,7 per cento del suo Pil – spesa peraltro mai del tutto aggiuntiva rispetto a quella ordinaria -, nella Germania Est, fin dai primi anni della riunificazione politica, i trasferimenti medi annuali hanno raggiunto il 5 per cento del prodotto interno lordo.
Bisognerà pure sfatare quel luogo comune che identifica il Sud come una voragine di denaro, un buco nero che ha assorbito fiumi di risorse dallo Stato e che continua a battere cassa come un bambino viziato. È la teoria del “mezzogiorno irresponsabile e piagnone”. Un teorema che andrebbe rivisto alla luce dei dati reali, secondo cui il settore pubblico non riesce ad esprimere una spesa adeguata nel Mezzogiorno. I valori della spesa ordinaria in conto capitale destinata alle aree sottoutilizzate del Sud sono infatti dal 2008 in costante diminuzione, arrivando nel 2010 addirittura al 23,1 per cento del totale. Siamo ben lontani anche dal solo peso naturale del Mezzogiorno, la cui estensione territoriale è pari al 38 per cento della superficie nazionale.
Questi numeri non devono essere un alibi per nessuno. Entra qui, e prepotentemente, la questione delle responsabilizzazione delle classi dirigenti nazionali e locali nella gestione degli strumenti destinati alla convergenza. Sul piano nazionale significa sostenere lo sviluppo delle aree depresse garantendo investimenti reali e leve di fiscalità di sviluppo, imponendo trasparenza e vigilando sul loro corretto utilizzo.
Su quello locale vuol dire potenziare gli strumenti di feedback tra amministratori e cittadini, sfrondare ed economizzare il sistema della pubblica amministrazione, dichiarare guerra agli sprechi e alle intermediazioni parassitarie, delegare poteri e risorse solo a dirigenti capaci e responsabili. Il Mezzogiorno e l’Italia tutta deve far propria la politica delle “carte in regola” che trenta anni fa ha ispirato l’azione concreta e la riflessione teorica di un grande meridionalista come Piersanti Mattarella.
Le carte in regola rappresentano un punto di partenza fondamentale per avere credibilità nelle sedi decisionali nazionali e comunitarie. E quindi per poter invocare, a Roma come a Bruxelles, le necessarie politiche di convergenza con autorevolezza e senza dare alibi ai tanti che lavorano contro le ragioni della coesione.
Abbiamo bisogno di una politica di sviluppo nazionale che, come in Germania, liberi risorse vere indirizzandole su infrastrutture, investimenti e lavoro produttivo nelle aree depresse. Deve essere chiaro che investire sulla crescita economica e sociale delle zone e delle fasce deboli non vuol dire promuovere politiche parassitarie.È vero esattamente il contrario. Gli sprechi, le inefficienze e le politiche clientelari si nutrono proprio della incapacità di un territorio di esprimere una rete produttiva e sociale adeguatamente sviluppata. Il paese ha bisogno di pervenire a un patto per la crescita e per la coesione nazionale.
Affinché questo possa verificarsi, è necessario che le istituzioni, le forze politiche e lo organizzazioni sociali tornino a cooperare responsabilmente nell’ambito di una più salda riaffermazione del patto di unità e solidarietà nazionale. È la più grande occasione data a tutti per riscattare la propria missione al servizio della democrazia e del bene comune.