
Ridurre il debito attraverso dismissioni parziali e non strategiche di otto grandi imprese pubbliche, tra cui Fincantieri, Eni ed Enav. Il piano privatizzazioni annunciato dal Presidente del Consiglio e profilato con maggiore nettezza dal ministro Saccomanni richiama una esperienza già vissuta dal nostro paese negli anni Novanta. E, con essa, una lezione che – specialmente dopo il caso Telecom – non è davvero più possibile ignorare.
L’idea, cioè, che il sistema-paese italiano, e il sistema capitalistico in modo particolare, abbia bisogno di strumenti nuovi e più efficaci per radicare sul territorio nazionale gli investimenti e i processi decisionali che ne determinano le dinamiche. L’urgenza di legare i meccanismi di accumulazione finanziaria alle istanze della economia reale, e in particolare al mantenimento dei livelli occupazionali, all’aumento della competitività, alla tutela di asset nazionali irrinunciabili.
La strada maestra, come indicato anche da esponenti di tutto il sindacato, passa per il riconoscimento di un ruolo attivo dei lavoratori nella gestione delle imprese. Riusciamo ad immaginare quale capitalismo avremmo oggi se negli ultimi anni del secolo scorso fossimo riusciti a incardinare la stagione delle privatizzazioni delle partecipazioni pubbliche sui binari della democrazia economica? Riusciamo a figurarci quanti pezzi di industria avremmo salvato, quante scalate e quanta finanza speculativa avremmo arginato?
Bisogna comprendere ora, prima di iniziare le operazioni di dismissione, quanto importante sia questa sfida. Penso alla costruzione di un modello coerente ed organico che preveda sistemi di cogesione alla tedesca, ma anche la sottoscrizione da parte dei lavoratori di quote di capitale attraverso fondi pensione o di investimento. Questa opportunità, negli anni Novanta, non fu colta. Oggi raccogliamo il frutto dei massimalismi espressi allora dagli industriali e da una parte del sindacato. È vero: la storia non si fa con “se”e “ma”. Ma dagli errori bisognerà pure imparare.
L’occasione l’abbiamo davanti adesso. Se davvero l’esecutivo vuole aprire una stagione di apertura al mercato, non cada in due semplici errori. Primo: non abbia troppa fretta. Ha ragione chi mette in guardia dal rischio svendita. Secondo: il governo non operi unilateralmente. La squadra di Letta ha il dovere e la capacità di aprire con le parti sociali un cantiere sulla democrazia economica. In tema di relazioni industriali vanno perseguiti strumenti capaci di garantire la partecipazione dei lavoratori alle decisioni strategiche d’impresa, modello pienamente prefigurato dall’articolo 46 della nostra Costituzione.
Le condizioni per arrivare a questo traguardo ci sono tutte. Sul versante sociale si registra, in particolare, la formazione di un fronte coeso e riformista. Un clima costruttivo e responsabile, che ha già dato vita all’intesa unitaria in cui le tre maggiori confederazioni sindacali e l’associazione degli industriali definiscono regole condivise sulla rappresentanza, indicando nel contempo una comune piattaforma d’intervento economico e sociale. Il governo ha oggi l’opportunità di compiere concretamente il primo passo di un cammino comune, che ambisca a fondare su basi stabili, redistributive e solidali un nuovo patto per il lavoro, gli investimenti e la crescita nazionale.